venerdì 3 ottobre 2014

PERDUTO È TUTTO IL TEMPO CHE IN AMAR NON SI SPENDE 1



Paolo Caliari detto il "Veronese", La conversione di Maria Maddalena, 1548 circa, National Gallery, Londra.


Verona, Ristorante Due Torri, interno

Paolo Caliari detto il "Veronese", Allegoria della Prudenza, 1560-61, Affresco di Villa Barbaro, Maser (TV).

Torrone di Alicante, Locanda Le Muse di San Bonifacio (Verona)



"Perduto è tutto il tempo, che in amar non si spende".
(Torquato Tasso, Aminta, Atto I, 30-31).







Verona sabato 27 settembre ore dalle 14.00 alle 14.30 circa, in una via a pochi metri da piazza Bra (quella dell’Arena), dopo un pranzo eccellente il mio vicino di tavolo, un signore di una certa età, piuttosto corpulento e dal marcato accento veneziano (dopo quasi trent’anni che vivo in veneto sono ormai capace di distinguere le diverse inflessioni locali del dialetto veneto: il vicentino dal padovano, il veronese dal veneziano, il bellunese dal trevigiano, …),  chiacchiera amabilmente col cameriere.
Sono perfettamente rilassato, in gradevole compagnia, preferirei godermi quell’istante di beatitudine in cui posso dedicarmi completamente a ciò che mi piace fare, preferirei mantenere ancora un po’ nella mia mente i sapori squisiti di quel pranzo, del risotto all’amarone, dell’anatra farcita con pistacchi, delle verdure saltate in padella, del generoso valpolicella, della Storica Nera che si apprezza più con l’odorato, non col gusto, tanto è vero che alcune donne venete la usano come profumo (due gocce sui polsi da passare sul collo), e del caffè.
Vorrei pregustare il piacere della mostra che avrei visto da li a poco al Palazzo della Gran Guardia: Paolo Veronese. L'illusione della realtà, giunta ormai ai suoi ultimi giorni, e di quella si poterne parlare a profusione (dopo però, non durante, odio il mormorio mentre sto godendomi qualcosa), ma solo con persone che sanno trasformare l’esperienza estetica della visita ad una mostra nella comunicazione di ciò che hanno autenticamente provato e immaginato.
Non mi piace molto chi razionalizza, chi ci costruisce sopra arditi pinnacoli e nuvole di fumo per eclissarsi dietro le parole, chi produce soltanto bollicine o panna montata perché non ha nulla da dire, ma vuol dirlo con grazia (Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray), chi intorbida “le proprie acque per farle sembrare profonde” (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Dei poeti).
Paolo Veronese l’ho conosciuto “veramente” visitando a Venezia le Gallerie dell’Accademia, la Chiesa di San Sebastiano, il Palazzo Ducale, La Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti e Villa Barbaro a Maser (Treviso); nonostante negli anni di liceo avessi studiato la storia dell’arte sul manuale di uno dei più grandi critici d’arte italiani, Carlo Giulio Argan, nemmeno la sua prosa poetica era riuscita ad accendermi la passione per questo grande pittore.

Verona, Arche scaligere, Arca di Mastino II.

Verona, Arche scaligere, arca di Cangrande della Scala.



Paolo Caliari detto il "Veronese", particolare degli affreschi della Sala a crociera di Villa Barbaro a Masier (TV).

Una buona mostra dovrebbe far parlare quanto più possibile le opere che espone e non, viceversa, utilizzare le opere per sostenere le ipotesi e le congetture del (o dei) curatore/i, le didascalie dovrebbero essere semplici e scarne, e dovrebbero servire semplicemente a fornire qualche chiarimento storico, artistico e tecnico sull’autore, sull’opera, sul periodo storico e artistico, senza essere troppo specialistiche o troppo astruse.
Non sopporto le didascalie troppo lunghe, troppo complicate o troppo specialistiche, non sopporto quelle orribili audio-guide che ci fanno sembrare tanti automi telecomandati, con una sorta di antennine che pretendono di captare l’aura artistica dell’opera, mentre in realtà ti nutrono di parole preconfezionate che ti danno l’illusione di aver compreso senza in realtà aver capito nulla.
La fruizione artistica è un’esperienza fondamentalmente emotiva, un’opera che non ti suscita emozioni non si può annoverare come arte, le parole sgorgano dopo, nel momento in cui vuoi comunicare l’emozione provata o vuoi fermarla, delinearla, circoscriverla, prenderne atto, dartene conto, comprenderla meglio.
Ogni strumento che si sovrappone al contatto fra il fruitore e l’opera, soprattutto se è sintonizzato su un registro razionale e non emotivo o è di una emotività dissonante rispetto a quella dell’opera che hai di fronte, crea soltanto disturbo e spesso impedisce l’esperienza stessa, magari sostituendola col contenuto razionale stesso,  meno impalpabile, conturbante o coinvolgente di un’emozione, più facile da memorizzare tanto che sono in molti a ricordare poi quasi esclusivamente le indicazioni delle didascalie o della audio-guida e non sanno dire molto altro dell’esperienza appena vissuta.
Una mostra non è un’opera d’arte singola, c’è sempre un’idea di fondo che seleziona a priori le opere da esporre, non fosse altro che la reperibilità delle stesse e la disponibilità dei musei, delle collezioni, dei privati che le possiedono, di concederle agli organizzatori della mostra stessa; io credo sia necessario che l’idea di fondo, il tema che introduce l’intera mostra sia frutto di una matura riflessione dei curatori e sia possibile esporlo in maniera molto semplice, con pochi ed elementari cenni integrativi alle opere stesse.


Paolo Caliari detti il "Veronese", Martirio e Ultima Comunione di S. Lucia, 1582, National Gallery of Art, Washington

Paolo Caliari detto il "Veronese", Allegoria dell'Amore IV, L'unione felice, 1570 circa, National Gallery, Londra.

Paolo Caliari detto il "Veronese", Allegoria dell'Amore IV, L'unione felice, (dettaglio), 1570 circa, National Gallery, Londra. 



Mostre troppo pretenziose alla fine falliscono il loro obiettivo fondamentale (ma non necessariamente il successo della mostra stessa, che è legato ad altri criteri che non la semplicità della trasmissione dell’idea che fa da perno all’intera mostra), perché alla maggior parte delle persone sfugge il legame di fondo fra i vari artisti e le varie opere rappresentate, ma possono pur sempre apprezzare singolarmente ogni opera esposta senza necessariamente metterla in relazione con le altre o col tema proposto.
Quando si espongono opere di artisti diversi, vissuti in tempi molto diversi fra di loro, con una concezione artistica e tecnica completamente diversa, il rischio di capire molto poco è elevatissimo, ed elevata è anche la fatica richiesta nel passare da un artista all’altro, da uno stile all’altro, da una cultura all’altra.
Il 30-09, martedi, ero invitato (un invito pubblico giunto per posta al mio domicilio) alla presentazione della mostra di Marco Goldin che si terrà nella Basilica Palladiana di Vicenza dal titolo: Tutankhamon, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento; non ci sono andato perdendomi così l’anteprima in cui un certo Gilberto Colla ha letto alcune pagine de Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry e il racconto della mostra (con la proiezione delle immagine più belle della stessa) a cura dello stesso Marco Goldin, con l’accompagnamento musicale di un trio che suonava il flauto, la fisarmonica e il violoncello.
Ho perso anche “un quaderno promozionale a colori di 120 pagine dedicato alla mostra principale, alle mostre collaterali, agli itinerari turistici e a tutti gli eventi collegati” (dalla brochure) in omaggio.
Goldin ha iniziato ad esporre nella Ca’ dei Carraresi di Treviso tutta una serie di mostre sull’Impressionismo che hanno avuto molto successo, poi ha esposto a Bologna un’opera unica, La ragazza con l’orecchino di perla di Veermer, e poi si è lanciato in mostre complesse dal titolo: Da Rembrandt a Gauguin a Picasso; Mediterraneo. Da Courbet a Monet a Matisse; Da Hopper a Warhol. Pittura americana del XX secolo; Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondoRaffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti e figure; Da Botticelli a Matisse. Volti e figure; Verso Monet. Storia del paesaggio dal Seicento al Novecento … bisogna avere una cultura sterminata per sperare di affrontare tanti secoli di pittura, tanti stili diversi, per mettere insieme cose così disparate secondo un’idea che li accomuna … Rembrandt Gauguin e Picasso, Courbet Monet e Matisse, Hopper e Warhol, Veermer e Kandinsky, Raffaello e Picasso, Botticelli e Matisse, …, Caravaggio e Van Gogh … e pure Tutankhamon.







O sei un genio e riesci a cogliere affinità fra artisti, stili e tempi così diversi e a divulgarlo con efficacia, oppure metti insieme ciò che è reperibile sul mercato e su ciò che hai a disposizione ci crei sopra la “panna montata” … in ogni caso alcune opere in sé valgono la visita e altre sono semplicemente di moda, come gli impressionisti o la ragazza con l’orecchino di perla … quadri che perdono in questo modo la loro cifra artistica e diventano icone pop.
Nel futuro prossimo cosa ci sarà, a cosa assisteremo? Da Gaspare a Melchiorre a Baldassarre? Michelangelo verso Bernini? Van Gogh contro Matisse? Ercole contro Maciste? Sansone e tutti i filistei?
Ma il pacioso signore veneziano, accompagnato da una moglie filiforme, molto ben vestita e ben ingioiellata, truccata come se avesse trent’anni, che contrariamente a lui (e a me) ha mangiato come un passerotto e che non si intrigava né di politica né di calcio, non sembrava li per la mostra, né sembrava molto desideroso di visitare la città, né aspirava ad una poltrona vip o ad un posto sulle “gratinate” (questo mi ha proposto un insistente bagarino) per il concerto di Elisa all’Arena.
Si era goduto il lauto pranzo, si era acceso un sigaro (solo dopo che la moglie è andata in qualche posto da sola) e si è messo a chiacchierare del più e del meno col cameriere; di solito non partecipo a queste discussioni, o se succede è perché trovo il discorso interessante, in questo caso era di una banalità unica, parlavano esclusivamente per frasi fatte, per slogan carpiti chissà dove e giocati come solenni e ieratiche verità, della serie: “Caro Lei, deve sapere …”.
Ho lasciato passare i loro discorsi come l’acqua di un ruscello,  ma dal punto in cui ero mi era impossibile non ascoltare e in qualche modo il loro tono e la loro prosaicità disturbava la mia beatitudine; ma anche così avrei potuto conviverci senza troppi sussulti, mi ha dato particolarmente fastidio però quando il veneziano ha detto solennemente al suo interlocutore: “ … il problema dell’Italia è che il costo del lavoro da noi è troppo elevato …”.







Il problema non è la mafia, la corruzione diffusa, l’incapacità, l’inciviltà, l’imbarbarimento, il ridicolo in cui abbiamo ridotto la giustizia, lo stato di umiliazione in cui versa la meritocrazia, la perdita dell’eccellenza e delle maestranze, la fuga dei cervelli, lo stato in cui sono ridotte la cultura e la ricerca, l’ignoranza e l’incultura erette a sistema e pubblicamente lodate, la volgarità imperante a tutti i livelli, … no, il problema è che paghiamo troppo chi lavora! … ed eliminare l’articolo 18!
Chissà quanto sarà stato contento il cameriere che parlava con lui di sapere che era superpagato, chissà se si è posto il problema che quando si parla di costo del lavoro si sta parlando anche del nostro lavoro, chissà che gioia suscita il fatto che sarà il leader del partito sedicente di sinistra più grande d’Europa a cancellare in Italia la tutela del lavoratore di non poter essere licenziato senza una “giusta causa”.
Ma come fai a far capire ad un tipo simile che ad esempio la Germania quasi non conosce crisi, eppure li i lavoratori dipendenti vengono pagati molto di più che in Italia e sono molto più tutelati sia quando lavorano sia quando dovessero perdere il lavoro; come glielo spieghi il fatto che se il ceto medio costituito da lavoratori dipendenti ed operai non ha soldi, molto di ciò che produciamo rimane invenduto e come fai a fargli entrare in testa che ci sarà sempre una Cina, un Vietnam, un Laos, un’India, un posto qualsiasi al mondo dall’est Europa all’Africa nera dove il costo del lavoro sarà inferiore al nostro e che noi non potremo mai competere con questi paesi sulla base di un costo del lavoro concorrenziale, ma dovremmo competere sul piano della qualità , bellezza, originalità del prodotto.
Anzi, non “prodotto”, noi europei (e soprattutto noi italiani) dovremmo commercializzare non oggetti, ma il nostro stile di vita, il nostro senso della bellezza, la nostra cultura, l’eleganza, la classe, il saper vivere un’idea, un sogno.
Analizziamo cosa sta accadendo in una città come Verona, ad esempio, è certamente una bella città, gli edifici storici si sono conservati molto bene, è un piccolo gioiello di bellezza ma non può certo competere con le molte e più prestigiose città italiane i cui tesori artistici sono molto più copiosi; c’è stato qualche fermento culturale ed artistico ma niente di paragonabile a ciò che è avvenuto altrove, a Venezia, ad esempio, o a Firenze, o a Milano, o a Roma, o a Napoli ….





Verona, Presunta tomba di Giulietta.


Verona si trova esattamente sul bordo fra una città smaliziata, turistica, che strizza l’occhio a tutte le esigenze, che offre un’infinità di attrattive culturali, artistiche, di svago e, nello stesso tempo, una città che conserva in gran parte le sue tradizioni, i suoi riti, la sua cucina ed è disseminata di tutta una serie di piccole botteghe artigiane che producono oggetti esteticamente raffinati, di piccole osterie dove puoi ancora gustare la vera cucina veneta, i prodotti del luogo o dei dintorni, il vino locale a prezzi tutto sommato contenuti e di baretti dove si osserva la vita che scorre e si indulge al rito tutto italiano, a fine lavoro, dell’aperitivo prima di cena.
L’Arena è l’anfiteatro romano più grande e meglio conservato in Italia, ci si organizzano spettacoli di musica lirica e contemporanea di notevole rilievo, che potrebbero essere più agevolmente e comodamente organizzati altrove, ma le persone preferiscono affrontare la scomodità delle “gratinate” e il rischio della pioggia pur di assistere ad uno spettacolo nello spettacolo, quello cioè di ritrovarsi immersi in uno scenario antico incantevole, di far parte di un sogno, e godere così la loro musica preferita.
Verona è una delle città con più elevato afflusso turistico, il motivo principale per cui tante coppie di ogni età giungono li da tutto il mondo è il mito dell’amore romantico, cristallizzato da William Shakespeare nella sua Giulietta e Romeo e ambientata in questa città; non sono mai esistiti a Verona i Montecchi e i Capuleti, non c’è mai stata una casa di Giulietta, né tantomeno il suo balcone, non c’è neanche la casa di Romeo, né Romeo stesso (qualche buontempone ha individuato in un certo Cagnolo di Nogarola, detto “Romeo” il Romeo Montecchi shakespeariano, incurante del fatto che se Romeo si fosse chiamato Cagnolo, la tragedia perderebbe ogni poesia per farsi farsa … ma ve la immaginate Giulietta che dice: “Oh Cagnolo, Cagnolo, perché sei tu Cagnolo? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome! O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più una Capuleti”. (Giulietta e Romeo, Atto II, scena II)?
Certo che rifiuterebbe il suo nome Cagnolo di Ricotta, non è mica scemo, non puoi far palpitare il cuore delle fanciulle presentandoti con quel nome e Shakespeare avrebbe cambiato personaggio o non avrebbe mai scritto questa tragedia) e, naturalmente, non c’è nessuna tomba di Giulietta su cui portare dei fiori … è elementare mi sembra, se Giulietta non è mai esistita non può essere morta, e se non è morta non può esserci la sua tomba.
Eppure migliaia di turisti ogni anno si fanno ore di volo o di treno o di nave per commuoversi, emozionarsi, sperare, celebrare, fotografarsi dal balcone di Giulietta, accarezzare il seno destro della statua di Giulietta (che dicono porti fortuna e sia di buon auspicio in amore), agganciare lucchetti ovunque, imbrattare i muri, gli stipiti, le pareti della casa di Giulietta, incidere cuori, nomi, date, …, pur di partecipare al sogno romantico che ha legato i due personaggi di Shakespeare.




2 commenti:

  1. E' stato un piacere leggere questi due pezzi...
    Ho avuto la fortuna di trascorrere tre giorni a Verona in giugno, l'ho vista tutta girando in bicicletta ed è stato fantastico. Il tour delle chiese storiche: San Zeno, Santa Anastasia, San Fermo e il Duomo quello che ho amato di più e magico il concerto serale jazz al teatro romano.
    Condivido tutto quello che hai scritto. Delle opere amo molto l'aspetto sensoriale, mi piace toccare la tela per sentirne la grana, il legno e la pietra per la sensazione termica e il rilievo, mi piace seguire i contorni come se gli occhi non fossero sufficienti ... Purtroppo non sempre è possibile...
    I tuoi post mi hanno suggerito una piccola recensione.
    Grazie dei tuoi graditissimi passaggi
    Buon tutto
    Julia

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  2. Verona è una città che mi piace molto, densa di storia e di arte e, non mi vergogno a dirlo anche se non ho simpatie leghiste, decentemente amministrata, ci sono sempre nuovi e interessanti angoli di bellezza da esplorare se solo uno riesce ad uscire dal flusso turistico Arena-Giulietta e Romeo che rischiano di impoverire la città se si punta solo su questo.
    Poche altre esperienze mi danno piacere come entrare in contatto con l'arte e col bello in generale: non è solo fruizione la mia, né un'esperienza mistica o simbolica, né ha a che vedere con la Sindrome di Stendhal, è un'esperienza, invece, molto più simile all'amore, ad un rapporto sessuale, concreto e materico dove immagini di entrare in contatto con la tela, il legno, il marmo, la pietra e, soprattutto, con l'impeto di passione che l'artista vi ha impresso.
    E' ovvio, dati questi presupposti, che rimango deluso dall'arte "fredda", cerebrale, tutta giocata sulla tecnica e sul preziosismo, quella in cui non suppongo nessuna passione e nessun furor creandi da parte dell'artista ed è ovvio che mi piace scambiare le mie impressioni con chi condivide con me questa concezione dell'esperienza artistica come evento globale (che si inserisce cioè in un viaggio, nella visita ad una città e non semplicemente alla mostra o all'opera in sé, ai colori, allo stile, ai sapori, all'umanità di chi abita quel luogo, e come evento passionale.
    Ciao e grazie per i tuoi apprezzamenti, le tue suggestioni e i tuoi interventi.

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