mercoledì 26 marzo 2014

ELEATICO





ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι,
πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος, ἣ κατὰ <...> φέρει εἰδότα φῶτα·
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον.
ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ<ει> σύριγγος ἀυτήν
αἰθόμενος ‐ δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν ‐, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν
Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός
[10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,
καί σφας ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·
τῶν δὲ Δίκη
πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.
[15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν
πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα
ἀπτερέως ὤσειε πυλέων ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους
ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε· τῇ ῥα δι΄ αὐτέων
 ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν ἅρμα καὶ ἵππους. 
καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα
ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ,
χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν ‐ ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν ‐,
ἀλλὰ Θέμις τε Δίκη τε. χρεὼ δέ σε πάντα πυθέσθαι
ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ
 [30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. 
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα.

(Parmenide di Elea, DK 28 B 1, in Fr. 1, Sesto Empirico, Contro i matematici, VII, 111 e segg.).






"Le cavalle che mi portano fin dove vuole il mio cuore,
mi guidavano, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via ricca di canti,
che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l’uomo sapiente.
Là venni condotto; là mi portarono le cavalle molto avvedute
trainando il carro, e le fanciulle additavano il cammino.
L’asse dei mozzi, incandescente, emetteva un sibilo acuto
(poiché da ambo i lati era premuto
da due cerchi ben curvati) ogni qual volta le figlie del Sole [la fanciulle Eliadi],
abbandonate le case della Notte, affrettavano il cammino a guidarmi
verso la luce, liberando il loro capo dai veli con le mani.
Lì sono i cardini della porta dei sentieri della Notte e del Giorno:
fanno loro da cornice un architrave e una soglia di pietra;
essi, svettanti nell’etere, sono agganciati a grandi battenti.
Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,
con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello
senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi,
produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi
fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta,
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
E benigna la dea m’accolse, e mi prese la destra
e così parlò dicendomi queste parole:
«O giovane condotto da guide immortali
che vieni alla nostra casa portato dalle cavalle,
sii il benvenuto! Poiché non fu un avverso destino [Moira]
a mandarti per questa via (che invero è lontana dall’orma dell’uomo),
ma la legge divina [Temi] e la giustizia [Dike]. Ma ora devi imparare ogni cosa
sia il saldo cuore della ben rotonda Verità
e sia le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza.
Ma tuttavia anche questo imparerai, come l’apparenza
debba configurarsi perché possa veramente apparir
verosimile, penetrando tutto in tutti i sensi»".

(Parmenide di Elea, DK 28 B 1, in Fr. 1Sesto EmpiricoContro i matematici, VII, 111 e segg.)





"αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, 
αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· 
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· 
<πάντων> γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 
[5] πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις 
ἄρσεν θηλυτέρῳ".

(Parmenide di Elea, DK 28 B 12, in Fr. 12, Simplicio, Commento alla Fisica, 39, 14-16 e 31, 13-17).





"Quelle più strette, infatti, si riempirono di fuoco non mescolato,
le successive di tenebra in cui s’insinua una porzione di fuoco;
in mezzo a queste è la dea che tutto governa:
per ogni dove essa guida la dolorosa nascita e l’unione
spingendo la femmina ad unirsi al maschio e di nuovo, 
al contrario, il maschio ad unirsi alla femmina".

(Parmenide di Elea, DK 28 B 12, in Fr. 12SimplicioCommento alla Fisica, 39, 14-16 e 31, 13-17).



7 commenti:

  1. Cosa insolita vedere dei versi in greco in un blog. Anche se non so leggere quella lingua fa un bell'effetto. Sicuramente mi sento più vicino ai greci che al mondo anglosassone. Non appena le scadenze al lavoro me lo consentiranno cercherò quei versi, o magari puoi rendermi più facile l'impresa ;-) un saluto e grazie anche per la musica di Amar.

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  2. Caro Antonio,
    ammetto come cosa inconsueta riportare brani in greco antico in un blog, ma mi soffermo a pensare talvolta come mi sia più semplice comprendere (o credere di farlo) gli antichi greci, invece degli italici contemporanei; come io mi senta più vicino a loro (come scrivi anche tu) e non alle persone che mi circondano e che parlano la mia stessa lingua madre. Per questo (e non soltanto per l'età che avanza) preferisco sempre più spesso la compagnia di un libro, che quella dei miei simili, che una volta mi incuriosivano con le loro idee, con la loro capacità di mettersi in tutti i guai possibili e con la loro voracità di volere e di desiderare cose di cui non saprebbero sopportarne la perdita.
    In quanto a cercare i versi e una possibile traduzione, ti ho già risparmiato la fatica, sotto ogni testo greco c'è quello tradotto ;-)
    Ciao

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  3. In sostanza Parmenide aveva ripreso Sesto Empirico e Simplicio.Non lo avevo capito. In quanto alla scelta dei libri come compagni di viaggio la cosa ci accomuna molto ;-) Ciao

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  4. Mi rendo conto di aver creato un po' di confusione che adesso spero di aver corretto. Per ciò che riguarda Parmenide (e i presocratici in generale) non possediamo opere complete del loro pensiero, ne possediamo soltanto dei frammenti tramandatici da storici, pensatori e dossografi successivi, che hanno avuto in mano le opere originali (purtroppo perdute) o che ne parlano per sentito dire. Di Parmenide sappiamo qualcosa perché ne hanno parlato: Diogene Laerzio, Suda, Proclo, Platone, Strabone, Plutarco, Ippolito, Aristotele, Simplicio, Aezio, Clemente, Plotino, Sesto ed altri ancora. Ne parlavano o in forma indiretta, parafrasando l'originale, o in forma diretta, ricopiandolo parola per parola, come in questo caso. I filologi Diels e Kranz catalogarono tutti i commenti e li numerarono nei due modi in cui li ho esposti: DK sta infatti per Diels e Kranz, 28 è il numero che si riferisce a Parmenide, Empedocle ad esempio sarebbe 31 ed Eraclito 22; la lettera B sta per frammento, da distinguere dalla A che è invece una testimonianza; e gli ultimi numeri 1 e 12 che riporto sono relativi al frammento in questione dell'autore citato. Mentre Fr. sta per frammento, seguito dall'autore che lo riporta e dall'opera e dai versetti in cui lo riporta. Non vorrei apparire come un misantropo riguardo all'affermazione sulla preferenza della compagnia dei libri, sto molto bene in compagnia, però mi accorgo che all'eterno gioco degli individui che recitano se stessi senza consapevolezza alcuna e senza alcuna ironia, preferisco sempre più spesso la compagnia di qualche autore che ha provato ad uscire dal guscio e ce ne ha lasciato testimonianza. Vorrei precisare che non si tratta semplicemente di amore per i libri, perché in tanti libri si continua, purtroppo, a recitare la commedia (o la tragedia ... o la farsa ... o il melodramma ... o la fiction ... o la telenovelas) di se stessi, e sono i libri che hanno più successo di pubblico oggigiorno (intere foreste abbattute per pubblicare pessime commedie). Mentre ho la fortuna nel mio lavoro di incontrare ancora delle persone che mettono dolorosamente in discussione se stesse e cercano un briciolo di autenticità in questa immensa recita collettiva.
    Ciao

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  5. Mi ci voleva una rinfrescata sulla catalogazione dei presocratici. Mi fa pensare quello che dici riguardo al tuo lavoro. Un luogo comune vuole che si ricorra alla psicanalisi per una qualche forma di patologia, io invece sono sempre stato convinto che alcune "patologie" sono un motore di identità e in qualche modo tu lo confermi. Ho appena finito di leggere questa intervista a Galimberti, forse chi mette dolorosamente in discussione se stesso cerca continuamente un nome al proprio malessere, mentre nell'immensa recita collettiva ad un certo punto si smette di cercare il nome e quel che è peggio ci si convince di stare bene e di recitare una parte di rilievo. Ognuno è un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più, dice il Macbeth.
    Anche a me piace fare a botte con i libri ma quello che mi piace di più è discutere di libri con qualcuno, cosa che mi accade sempre più raramente.
    "con la loro capacità di mettersi in tutti i guai possibili", mi fai venire in mente quella frase del grande inquisitore dei fratelli Karamazov gli uomini, nella loro innata semplicità e sregolatezza.
    ciao

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  6. Caro Antonio,
    la nostra cultura moderna ci ha abituati a pensare che il sintomo coincida col male, se ho mal di testa non cerco di capire da dove mi deriva, che segnale è per la mia vita quel male insistente (lavoro troppo? ho problemi irrisolti? la vita mi va a rotoli? problemi sentimentali? sto attraversando un periodo di stress?), non ci rifletto nemmeno, prendo un antidolorifico e mi passa subito tutto.
    Non ascoltiamo più nemmeno i segnali del corpo, figurati se ascoltiamo i segnali psichici o quelli relazionali; molti matrimoni reggono finché regge l’innamoramento o finché ci facciamo distrarre dagli impegni che comportano (mutuo della casa da pagare, allevare i figli), poi naufragano miseramente alla prima crisi, al primo problema.
    Può capitare che ci “svegliamo” un giorno e ci troviamo un estraneo in casa che però è mia moglie ed è la madre dei miei figli, con lei ho messo su casa, abbiamo dei figli in comune, condividiamo gli spazi, so che le piacciono i film romantici e che non le piace la senape, e questo mi fa credere di conoscerla, ma per il resto non so niente.
    Oltre queste piccole banalità in genere una coppia non va, non si esplorano a vicenda, non solo non scatta la curiosità reciproca, ma c’è posto addirittura un veto, un accordo inconscio e perverso secondo cui tu fai finta di non vedere i miei difetti e io farò finta di non vedere i tuoi.
    La crisi è l’inizio della possibilità di una crescita, di una maturazione, è l’urgenza di trovare un altro equilibrio superiore, più fondato, è segno che vorremmo un rapporto più maturo; invece oggi è proprio la crisi che spesso infrange il legame, sia perché crediamo che tutto debba andare sempre liscio e la crisi è un segnale che siamo sbagliai, che bisogna cercare la felicità altrove, sia perché non siamo abituati ad affrontarla, non crediamo di poterla superare, non siamo emotivamente attrezzati per attraversarla … allora è più semplice credere che la mia felicità sia altrove, con un’altra persona, oppure mi rivolgo all’ “esperto” che mi insegna le tecniche o le strategie o che mi trasmette le competenze per superarla.
    È pressappoco come prendere la pillola quando hai il mal di testa, non cerchi di capire cosa c’è che non va, vorresti che il problema sparisse al più presto, magai con i consigli di un esperto o con le magie della chimica che si materializzano in una pastiglia del benessere.
    Chi si rivolge a me ha accettato la crisi, ha accettato di mettersi in discussione (non sa ancora quanto dovrà andare a fondo, ma il primo passo l’ha fatto, magari si illude ancora in una riparazione magica, o si rivolge a me per porre termine alla sua sofferenza), basta poco davvero per incuriosirlo circa se stesso, viviamo in una società ipertecnologica, dove vigono le regole del mercato e dei libretti di istruzione del prodotto anche nei rapporti umani, ma siamo quasi completamente digiuni di sentimenti (come dice anche Galimberti), siamo analfabeti emotivi.
    Bisognerebbe educare le persone durante la loro crescita non solo a riconoscere un sentimento, ma anche a crearlo dentro di sé, a goderselo, a imparare a conoscerlo, a sopportare l’impatto emotivo che ha su di noi persino il più bello dei sentimenti o il dolore che ci lascia il peggiore fra di loro, crescere nella consapevolezza che il sentimento non ci abbatterà, non ci distruggerà, per quanto forte ed impetuoso possa essere.
    (segue)

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  7. Certo, i miti erano un utile strumento usato dagli antichi greci per mettere i loro “cuccioli” a contatto con i propri sentimenti, per imparare a conoscerli (e a conoscersi), per dominarli e non esserne dominati; il mito era anche veicolo dei principi etici di quella società, ma non facciamo l’errore di credere che il potere maturativo fosse intrinseco al mito, che poteva essere anche un raccontino piuttosto banale, persino le fiabe hanno avuto in passato questo compito, o le parabole evangeliche, non crediamo che basterebbe che leggessimo un libro per crescere.
    Ciò che fa si che un essere umano maturi è il rapporto educativo con un altro essere umano maturo, da bambini impariamo a parlare e a camminare perché una persona che sa già parlare e camminare (in genere nostra madre) crede immancabilmente che noi possiamo parlare e camminare, e organizza i nostri movimenti scomposti e i nostri vocalizzi come se fossero degli autentici miracoli e come cose dotate di senso.
    È il rapporto che ci fa crescere, i miti venivano cantati dagli aedi, se ne discuteva con gli adulti nell’antichità, le saghe, le tradizioni, venivano tramandate intorno al fuoco, nei villaggi, in occasione di feste, intorno al desco familiare, venivano rappresentati in teatri, venivano veicolati da adulti a cui era attribuito un alone di straordinarietà, da quelle figure che Jacques Lacan avrebbe definito il “soggetto supposto sapere”, persone a cui noi attribuiamo una particolare sapienza circa il senso della nostra vita, di cui noi siamo inconsapevoli, ma loro no, loro sanno perché siamo al mondo, sanno qual è il nostro compito, il nostro destino.
    Oggi, lo scrive anche Galimberti, non esistono più i riti di passaggio, le ordalie, non c’è nemmeno lo statuto di “adulto”, siamo tutti eterni adolescenti fino alla morte e, conseguentemente, non esistono più figure maieutiche: non gli insegnanti, che trasmettono nozioni, moduli, competenze tecniche e chissà cos’altro, ma non la loro umanità o il loro entusiasmo, la loro passione, la loro maturità, spesso loro stessi sono immaturi e non hanno fatto alcuna esperienza di crescita, essi stessi emotivamente analfabeti come i loro allievi.
    Non più nemmeno i sacerdoti, gli uomini religiosi, che recitano ormai meccanicamente i brani delle Scritture, alcuni di essi possono essere anche eccezionalmente colti, ma nessuno coglie più il significato emotivo profondo di ciò che è stato tramandato o esso viene banalizzato in favoletta edificante o viene trasformato in un pessimo film hollywoodiano, pieno di effetti speciali e vuoto di sentimenti (come la Bibbia a puntate passata di recente sulle nostre tv, o Troy, o 300, …).
    Non saranno nemmeno i libri a trasmetterci qualcosa, certo un libro libera l’immaginazione, ma da solo non basta a farti vedere quel movimento emotivo interiore che ha fatto il suo autore nello scrivere, solo l’amore e l’affetto per un altro essere umano può farti affrontare la sofferenza che accompagna ogni consapevolezza profonda di sé o darti il coraggio per osare guardare nell’abisso.
    Ciao

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